Siccità, In Sicilia chilometri cubi di acqua inutilizzata. La ricerca avanza mentre la politica arranca

Intervista al professor Lipparini. A fine novembre fu pubblicato lo studio che confermava l’esistenza di un giacimento d’acqua fossile nelle viscere dei monti Iblei. Anche l’Etna è un bacino importante

di Alessandro Bongiorno

Quando a fine novembre fu pubblicato lo studio che confermava l’esistenza di un giacimento d’acqua fossile nelle viscere dei monti Iblei la notizia suscitò un misto di curiosità e interesse. La presenza di 17 chilometri cubi di acqua che giace a una profondità tra i 700 e i 2500 metri era rivelata da una ricerca condotta dall’Università di Malta, dall’Ingv e dall’Università Roma 3. Si era nel pieno dell’autunno e nessuno sapeva che si stesse andando incontro a un inverno particolarmente avaro di piogge. Oggi, otto mesi dopo, abbiamo appreso dal Guardian e dall’Università di Catania che entro il 2030 un terzo del territorio della Sicilia diventerà un deserto e assistiamo impotenti a una siccità che ha avuto come immagine di riferimento il progressivo prosciugamento del lago di Pergusa. L’agricoltura, gli allevamenti, le città, la popolazione siciliana sono in sofferenza per la mancanza d’acqua e il 2030 dista poco più di cinque anni.

Quella ricerca oggi torna d’attualità. In Sicilia, anche se non in superficie, c’è una quantità d’acqua che attende da sei milioni di anni di tornare ad alimentare il virtuoso ciclo che abbiamo studiato alle scuole elementari. E bacini simili a quello degli Iblei si trovano sicuramente (anche se non sono stati ancora localizzati) in altre parti della Sicilia e importanti risorse si possono ricavare anche dal sottosuolo dell’Etna. Mentre gli enti di ricerca mirano ad approfondire lo studio per valutare un piano di sviluppo e un progetto di utilizzo di quelle acque, la politica si arrampica alla ricerca di soluzioni che nel breve e nel medio periodo possano dissetare la Sicilia sperando che la pioggia vada presto a rialimentare le falde sempre più asciutte.

«In questi otto mesi – risponde Lorenzo Lipparini, ricercatore Ingv-Università di Malta, professore all’Università Roma Tre e primo autore dello studio insieme a Roberto Bencini e Aaron Micallef – non siamo stati contattati né dalla Regione Siciliana, né dalla Protezione civile. Solo il Cnr, che stava curando delle ricerche per una rete di organizzazioni agricole, ci ha chiesto degli approfondimenti. Molto più interesse si è registrato a Malta, che ha esigenze di approvvigionamento idrico che è facile intuire, e in Libia, Tunisia, Marocco e in altri Paesi dell’Africa Settentrionale e Centrale nei quali le acque sotterranee possono sottrarre milioni di persone alla sete e al deserto. Lo studio è stato presentato anche a Oslo e a un convegno a Ragusa ma dalla politica siciliana e italiana non abbiamo colto interessamenti particolari».

Sarebbe complesso immettere queste acque nella rete idrica della Sicilia?

«Credo che non ci vorrebbe molto. All’altezza di Vizzini e Licodia l’acqua si trova a 7-800 metri sotto il livello del suolo. Non dovrebbe essere difficile intercettarla e riportarla in superficie. Credo che sia un progetto fattibile e con investimenti neanche considerevoli. Immagino – aggiunge il professor Lipparini – che questo giacimento possa rappresentare una scorta da utilizzare nei momenti di criticità. Un po’ come avviene per il gas che lo stockiamo nei mesi estivi, quando l’utilizzo è minimo, per poi utilizzarlo in inverno quando la richiesta è alta. Credo sia possibile allacciare questo polmone d’acqua alla rete siciliana e utilizzarlo quando le altre risorse idriche non sono sufficienti. I valori di questo giacimento sono importanti. Stiamo parlando di un bacino di 17 chilometri cubi di acqua solo in parte debolmente salmastra che potrebbe essere utilizzata per usi irrigui, per gli allevamenti e, riteniamo, con gli opportuni trattamenti anche a fini idropotabili».

Come si è arrivati alla scoperta del giacimento degli Iblei?

«Siamo partiti dai dati che erano disponibili relativi alla ricerche nella zona di idrocarburi. Qui si estrae petrolio da quasi 100 anni e sono attivi diversi campi di ricerca. Quando si effettuano questi test, si trova inevitabilmente e più in superficie l’acqua. Questa acqua per le aziende minerarie che puntano al gas o al petrolio sono inutilizzabili ma possono rappresentare un valore sociale notevole, e senza costi aggiuntivi, per milioni di persone. Penso alle ricerche che vengono condotte anche in Africa, in Medio Oriente o in altri Paesi. Le multinazionali del petrolio potrebbero mettere a disposizione delle popolazioni queste acque sotterranee dando allo sfruttamento dei giacimenti petroliferi anche un’impronta sociale che aiuterebbe le popolazioni ad accogliere con meno difficoltà la presenza delle trivelle».

In Sicilia è possibile ipotizzare altri giacimenti simili?

«Sicuramente sì. Andrebbero ovviamente ricercati partendo magari proprio dai risultati delle campagne di ricerca di idrocarburi fossili effettuate in altri territori. Poi c’è l’Etna che è un acquifero importante. Gran parte di queste risorse non vengono utilizzate. In questo caso non si tratta necessariamente di bacini fossili, che è pur probabile che esistano, ma di acque che andrebbero investigate e, dopo gli opportuni interventi di efficientamento, immesse nelle reti idriche. L’Etna è sicuramente molto ricca di acqua».

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