A COSA SERVE LA MEMORIA?
Ci stiamo avviando verso la celebrazione della Giornata della Memoria. Ma come la celebreremo quest’anno? ciò che sta succedendo alle nostre frontiere, con la guerra scatenata dalla Russia di Putin dentro i confini dell’Europa, cambia o meno la natura e l’obiettivo della memoria di quell’altra guerra che ci ha devastato quasi ottant’anni fa? Arriviamo a quel 27 gennaio ripetendo vecchie liturgie per difendere la memoria, o con l’idea che quella memoria debba servire proprio ad evitare che succeda ciò che sta succedendo, è successo molte altre volte nel dopoguerra, e continuerà a succedere se non vi poniamo riparo? non solo in Ucraina, certo, un paese aggredito che si difende valorosamente, ma anche in Iran, con la rivoluzione che vi cresce ad opera delle donne umiliate e conculcate, e su tanti altri fronti più dimenticati, Siria, Yemen.., ma non per questo meno significativi.
Mentre scrivo è l’anniversario dell’Holomodor, la carestia indotta dal regime sovietico che nel 1932-33 fece milioni di morti in Ucraina. Un genocidio. A tutt’oggi la sua memoria in quanto atto genocidario è contestata da molti, in primo luogo dalla Russia negazionista, ma non solo. Fu già un genocidio per Raphael Lemkin, l’ebreo polacco creatore nel 1944 del concetto e del termine di genocidio, ma non oggi per il presidente di Israele Herzog, che pur ricordando l’Holomodor non usa a definirlo questo termine. Per lui, sembra, l’unico genocidio continua ad essere e ad essere stato quello degli ebrei.
La domanda è sempre quella: a che serve, a che deve servire la memoria? Ad evitare che ciò che è successo si ripeta, continui a ripetersi, sia pur in modi sempre diversi, o a far memoria delle vite perdute, dar loro nomi e volti, ricordare? Certo, nessuno potrebbe negare l’importanza di una memoria volta a riconoscere le vittime, ad impedire che siano dimenticate, ne siamo ben consapevoli quando ci soffermiamo sulle pietre d’inciampo, a leggere nomi e a ricostruire storie, con emozioni sempre rinnovate. Ma è sufficiente? E per questo soltanto che i sopravvissuti alla Shoah hanno assunto sulle loro spalle il peso doloroso del ricordo, sono andati a parlare a sempre nuove generazioni raccontando e testimoniando? O è anche per evitare che succeda di nuovo, riconoscendo i sintomi del male e combattendolo prima che sia troppo tardi?
I cambiamenti avvenuti negli ultimi anni nel mondo non sono stati senza conseguenze sulla nostra percezione del passato e sulla nostra memoria della Shoah. Si ha la sensazione sempre più netta di una stanchezza di questa memoria, di un suo affievolirsi, di un disinteresse verso questa storia. Ci avviciniamo, sia pur lentamente, al momento previsto da Liliana Segre in cui la Shoah sarà ridotta a due righe sui libri di storia. Non è ancora così, ma il processo sembra avviato. Molti fattori vi contribuiscono: il fatto, innanzitutto, che la costruzione dell’Europa si era fondata sulla memoria della Shoah, ne aveva raccolto l’eredità, la aveva trasformata nel pilastro del suo rifiuto del razzismo, dell’antisemitismo, del nazionalismo. Non a caso la Giornata della Memoria è ancor oggi l’unica ricorrenza civile comune a tutti i paesi dell’Unione Europea, sia pur con forme e date diverse. Ora che il sovranismo dilaga in Europa, accompagnato dal suo seguito di razzismo, fascismo più o meno occulto, antisemitismo; che l’aggressione russa all’Ucraina ci ripropone violazioni dei diritti umani e fenomeni genocidari che non erano stati totalmente assenti in Europa nei decenni successivi al 1945, pensiamo alla Bosnia, ma che avevamo sperato col rafforzamento dell’Europa e il crescere del diritto internazionale di veder scomparire per sempre. Ora che questo baluardo rischia di crollare senza che quasi ce ne accorgiamo, come arrivare al 27 gennaio? Come parlare nelle scuole ai più giovani, che cosa trasmettere?
Credo che se ci limiteremo a raccontare quello che è successo al popolo ebraico nella Shoah, se ci chiuderemo in una visione difensiva della memoria, avremo perso la battaglia in partenza. L’unico modo di tener viva la memoria della Shoah è quella di aprirla ai genocidi che hanno costellato il Novecento e che continuano a realizzarsi, in questo nostro terzo millennio, nel resto del mondo. Per riconoscerli, per riconoscerne i prodromi, i sintomi, i rischi. Per farlo, però, dobbiamo fare della Shoah, dell’evento estremo del Novecento, del genocidio senza precedenti al cui monito ci siamo ispirati quando abbiamo abbattuto in Europa le divisioni nazionalistiche e i razzismi di ogni genere, un prisma attraverso cui guardare, riconoscere il male, combatterlo e vincerlo.
Se la memoria della Shoah non riuscirà a mantenere questo carattere di strumento di lotta contro i genocidi e i razzismi di ogni genere, se si chiuderà in uno spazio difensivo volto soprattutto a salvaguardare l’identità degli ebrei, allora dovremo rassegnarci a vederla man mano affievolirsi fino a scomparire. Come è normale che sia quando nuovi eventi distruttivi si contendono l’attenzione degli esseri umani e ne sollecitano la memoria. Allora, il 27 gennaio diventerà inutile e noi avremo fallito nel nostro compito, dire “mai più”.